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Tacito ci assicura Ann. lib. 2. cap. 2. che avean essi le virtů ignote per vizj nuovi, ignotae Parthis virtutes, nova vitia. Ecco in qual senso adunque cred' io che Tacito usasse il toleratiora. La clemenza e la giustizia non possono irritar mai qualunque popolo barbaro, principalmente ove sieno nella pienezza del lor significato adoprate. Avrebbon dunque tali virtù, sconosciute a' Parti, resa più sopportabile ad essi la signoria di un Arsacido veramente, ma che nudrito in Roma e guasto d'ogni costume romano, si presentava loro, non coll' aspetto di un Re nativo, ma come un alunno vile di Roma, e uno schiavo della potenza romana.

Il P. Petrucci volgendo il tanto toleratiora in tanto men dispiacevoli, chiaro è che attiensi a tale interpretazione. Perchè dunque nella nota latina a piè del testo riprova tal sua versione, asserendo che dee toleratiora prendersi per gratiora? poichè niuno gli permetterà di scambiare il men dispia cevole col più grato, qualor non mostri che il meno amaro equivale perfettamente al più dolce.

Nota 4. cap. 49.

PER LOSCO INGEGNO) Non credo che l'ignavi animi del Testo sia debitamente espresso dal Davanzati con d'animo vile, e par la bassesse de son ame dal Dureau de la Malle; poichè qui parlasi di un giuocolare; che si acquistò la grazia di Cesare divertendolo e con le forme risibili e con le goffe scurrilità. Ora, per quanto io sappia, non è mai la viltà, che muova il riso degli uomini, bensì la goffaggine. Animus dunque pèr me non vale che ingegno, al quale deesi la proprietà di losco, che figuratamente equivale per gl' Italiani ad ignavus.

Per fuggir quest' ingegni sordi e loschi, cioè ottusi e stolidi,cantò il Petrarca.

Nota 5. cap. 53.

BAREA SORANO) È questi quel Barea Sorano, spegnendo il quale, dice lo Storico Ann. lib. 16. cap. 21. Nerone virtutem ipsam excindere concupivit. Pare però che l'amara riflessione, onde qui Tacito chiude la narrazion degli onori decretati a Pallante su la proposizion di Barea, denigri quella opinion di virtù perfetta, ch'ei nell' esporne la morte con tanta forza

di sentimento adombrò. In fatti un Commentatore si maraviglia, come potesse Barea a tale adulazione trascorrere che si decretassero le pretorie insegne ad un servo, di che tanto il vecchio Plinio si dolse scrivendo Hist. nat. lib. 35 cap. 58. hoc est insigne vaenalitiis gregibus, opprobriumque insolentis fortunae. Per liberare adunque e dalla macchia di viltà Barea nel decretar gli onori a Pallante, e dalla censura d'incongruenza lo Storico nel presentar Barea qual esemplare della perfetta virtù poche osservazioni farò su quanto qui decretato narrasi dal Senato .

sero,

La proposizione di Claudio a Padri, a suggestion di Pallante, di gastigare le donne ingenue, che a' servi altrui si accoppiastale fu certamente che meritava di essere celebrata, siccome fu, negli annali della romana giurisprudenza Consentiva primieramente con la morale pubblica, perchè i matrimonj son della pubblica onestà fondamento; e niente invilisce più nell'animo de' cittadini le nozze, quanto la pratica divulgata di accoppiamenti illegittimi, la qual distrugge o corrompe quel senso morale almeno, col quale esige la civiltà che si regoli il sensuale appetito per conservare e diffondere con purità conveniente al costume pubblico le umane generazioni. I servi inoltre eran per legge romana tali, che in molte parti si reputavano eguali ed in alcuna peggiori ancora di condizione che i bruti stessi; talchè nient' eravi di più vile, e diciam anche di più brutale, quanto l'ingegno e il cuore di un servo. La donna, che si degrada sempre per ogni accoppiamento illegittimo, quale sarebbe mai divenuta di mente e cuore per il commercio osceno con corpo ed anima così turpe? La civil dunque ingenuità corrompevasi, e per la sua corruzione doveva ognor più sfrenarsi la petulanza servile, che già pel numero traboccante di questo gregge rendeasi grave e molesta alla pubblica tranquillità Ann. lib. 4. cap. 27. Ed a questi argomenti di onestà pubblica si univa ancor la privata utilità de'padroni per distornare le donne ingenue dal mescolarsi co' servi altrui: perocchè il servo adescato dalle lascive attrattive più non curava il servizio della famiglia, a cui soltanto restava di scorno e peso, come ne attesta Teofilo. La pena poi, che a tal pratica si propose, era convenientissima e a risarcir la privata utilità danneggiata, ed a vendicare l'onestà pubblica vilipesa; perchè mentre col degradar la rea dalla ingenua sua condizione la caricava solennemente di quell' infamia, nella qual s'era già Note agli Annali Tom. II.

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spinta da se medesima,veniva ad offrire il mezzo a' padroni onde riaversi del danno o con l'opera delle mani se schiava; o con le sostanze non più interamente libere della colpevole, se liberta. E per la sua conformità con la colpa riuscì la pena di tanto effetto, che quando tale decreto, da Vespasiano e Valentiniano rinnovellato, fu poi distrutto da Giustiniano, la femminile impudenza come un torrente, rotte le dighe, inondo:quo aggere dejecto, così riflette il Gravina de Orig. Iur lib. 3. cap. 31. mulierum effrenata libido nimium quantum exundavit!

Fu dunque tale proposizione per ogni parte onorevole. Ma il Principe ne dichiarò consigliere il suo liberto Pallante, perchè a lui grazia ed onore se ne rendesse. E questo appunto n' obbliga ad ammirare la virtù di Barea. Solevano i prepotenti liberti carpir danaro ed onorificenze da' Padri per argomenti di affanno e di scorno pubblico; e certamente Barea, se avesse per tali cose proposto, in riverenza del Principe, onori e doni a Pallante, rendeasi meritamente esecrabile;

Nam injusta ab justis impetrari non decet.

Io stimo dunque, ch'egli volesse non solamente premiare un fatto onorevole per sè stesso; ma incoraggiare ancora col premio il liberto a propor sempre a Cesare cose di onestà pubblica: poichè non potendosi estirpar dalla Corte l'opera e l'influenza di cotal gente servile se ne correggesse almeno il mal animo con infiammarlo a voler cose onorate, mostrando loro la stessa voce della virtù pronta ad ornarli di tutti i fregj, che alla virtù si convengono. Quanto v'ha dunque in tal decreto di vile deve rimproverarsi e a Scipione, contro del quale in fatti sdegnasi Giusto Lipsio, che di menzogne adulatrici corruppe quel sentimento onorevole di gratitudine pubblica cui destar volle Barea, ed a Claudio, che rese vano quel sentimento e ridicolo con ricoprire di falsa moderazione l'orgoglio, per la eccessiva opulenza già soperchievole, di Pallante; e contro Claudio è spezialmente diretta la riflessione amara di Tacito.

Nota 6. cap. 63.

ANTIVEDUTANE L'UTILITA') Leggo praevisa locorum utilitate, nel senso precisamente di antiveduta, rigettando il parum visa del Lipsio, lodato dal Pichena, e adottato dal Davanzati e da altri, e l'impraevisa del Gronovio, e il praevisa

a

nel senso di non visa dell' Ernesti appoggiato ad un verso mal
letto e peggio interpretato di Orazio; perchè i Calcedo nj furon
realmente i primi a vedere le proprietà de' luoghi, rimpetto
a' quali, e ne' quali si stabilirono, talchè qui Tacito usò,
mio parere, il praevideo nel suo nativo significato di ante
video, veder cioè prima d'ogn' altro. La cecità, della qual
grava l'Oracolo i Calcedonj con gli usati suoi aggiramenti qua
ambage, si vuole intendere della mente, la quale non seppe
usare quella utilità, che spontanea agli occhi loro offerivasi
e in conseguenza non suona che stupidezza. Il vedere degli
occhi rende assai più risibile e condannabile il non vedere
dell'animo. In fatti la più terribile maledizione, che sia fulmi-
nata a reprobi ne' sacri Codici, è che videntes non videant,
audientes non audiant, intelligentes non intelligant; e
Prometeo in Eschilo col dire de' primi uomini

Οἱ πρῶτα μεν, βλέποντες ἔβλεπον μάτην,
Κλύοντες κ ήκεον,

I quali prima vedendo, vedevano

Invano; ed ascoltando non sentivano,

come letteralmente traducesi dal Giacomelli, descrisse profondamente la stupidezza brutale dell'uman genere, prima che un raggio del Cielo lo ravvivasse.

Niente commosso il P. Petrucci da queste mie riflessioni, senza neppur mostrare di averle almeno apprezzate, nella Nota latina appiè del Testo dichiara, che dee il praevisa prendersi per praeter visa, parum visa, a giustificazione del non osservato il luogo migliore, in che volge il praevisa locorum utilitate, affermando che in egual senso fu praevidere adoperato da Orazio

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Cum tua praevideas oculis mala lippus inunctis.

questo il verso che abbiam di sopra accennato, ed è il verso 35. della Sat. 3. del Lib. 1., ed è tra' versi di quel Poeta, la cui lezione, rispetto al verbo rettore della sintassi, non erra incerta per ambiguità di varianti; talchè da tutti si legge concordemente; ma come? Non certo come dal P. Petrucci allegasi, ma quale da tutti i Codici si presenta, cioè

Cum tua pervideas oculis mala lippus inunctis Vero è che piacque al Bentlejo, confortatovi dal Rutgersio, e commendatone dall' Einsio, di tramutare questo pervideas đi tutti i Testi in praevideas. Ma gli è pur vero, ch'egli ne fu da gravi autori garrito, e perchè basta il pervideas, siccome

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posto, a presentare il concetto che Orazio volle adombrare;" e perchè il prae non si unì mai da' Latini a video in luogo di praeter. In fatti, perchè o la tenue memoria o la molta imperizia non mi traesse ad asserir cosa pur controversa, fattomi a consultare i Lessici più autorevoli, non ho veduto offerirmisi di praevideo altri significati, che prevedere, antivedere, veder da lungi prima di giungere, provvedere, come pur denno di lor natura voler composti i due vocaboli semplici di prac e video. Nè di ciò pago mi accinsi ad osservare se mai da qualche autore anche barbaro si fosse in tal modo usata la voce prae, che dar potesse argomento, ch'altro scrittore la unisse a video nel senso, a cui dal P. Petrucci si vuol qui trarre il praevisa. Ma non mi venne di riscontrarla che solamente una volta adoperata per praeter in Apulejo Metam. lib. 7. ma per praeter in significato di ultra, oltre, come apparisce dal Testo prae ceteris flagitiis, nunc novis periculis angit; il quale, come ognun vede, non è certo il significato, di che pur egli abbisogna. Niuno vorrà certamente anche a' più dotti Interpreti, non che al Bentlejo, consentir mai di corrompere il valor ch hanno di lor natura i vocaboli in una lingua, la qual per essere di già spenta non più soggiace ad arbitri; ma dee tenersi a quell' uso, ch'ebbesi in proprietà da coloro. che di nativo diritto l'adoperarono. E ciò quand' anche per questa via solamente potesse trarsi ad intelligenza un concetto d'inestricabile ambiguità. Che sarà dunque ove gli usati vocaboli offrano per se stessi bastante luce a chiarirlo? Or tale è il verbo, che qui si volle correggere dal Bentlejo. Egli a pervideas sostituisce praevideas perchè qui tenga il significato del TapaßλÈTE de' Greci, che espressamente suona limis aspicere, straborum more, vel obliquis oculis aspicere, male videre, torve, negligenter aspicere. Or dal dottissimo Pier Vettori erasi già proposto Lib. Var. Lect. 20. di attribuire un tal senso in questo verso d' Orazio al pervideas con minor onta della latinità, che non si volle al praevideas poi da Bentlejo. Perchè il prae, nè di per sè, nè congiunto a nome od a verbo giammai sostenne per i Latini il significato di contra, siccome il pa e da sè spesso, e frequentemente congiunto a' verbi pe' Greci: laddove, se da' Latini non si usò mai del per ad esprimer contra, gli si concesse però congiunto a'nomi di menomarne il proprio significato o di offrirne anche un contrario, siccome in perfidus ed in perjurus; talchè per tale

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