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giudizio non altra reità provavasi, che di estorsione. Non fu dunque reus majestatis. Inoltre la legge Giulia, siccome ho già divisato, non concedeva al Fisco l'eredità di chi fosse morto pendente il giudizio di maestà, se non quando la sua innocenza non fosse da' suoi dimostrata. Ora non si aspettò da Tiberio che i figli giustificassero il padre: anzi fu lor vietato di accingersi a tal difesa con trattar tutto il giudizio a nome di maestà, cuncta quaestione majestatis exercita, benchè la sola indulgenza verso Sacroviro appostagli, ma non provata, potesse avere tal nome. E che il trattare tutto il giudizio a nome di maestà debba considerarsi come un espresso divieto a'figli di non provarsi a purgare il padre delle imputategli scelleratezze, lo accerta Tacito stesso lib. 3. cap. 67., ove narrando un egual giudizio tenuto contro Silano, dopo aver detto nec dubium habebatur, saevitiae captarumque pecuniarum teneri reum, aggiunge, sed multa adgerebantur etiam insontibus periculosa..... et ne quis necessariorum juvaret periclitantem, majestatis crimina subdebantur, vinclum et necessitas silendi. Ecco quale necessità di tacere impose Cesare a' figliuoli di Silio, i quali, se avrebber dovuto tremare di sovvenire al padre pericolante per liberarlo da morte, viepiù doveano temere di cimentarsi a difenderlo dopo morte per conseryar le sostanze già domandate dal Fisco. All'effetto di tal domanda, per conservarne tutta la proprietà, dee riferirsi quel prima Tiberio erga pecuniam alienam diligentia. E non permette di dubitarne il modo, onde si narra da Tacito Paggregazione di tali sostanze al Fisco. Se la confisca era una pena legittima, dopo aver egli narrato che Silio non aspettò la condanna, avrebbe semplicemente aggiunto che fu la morte seguita dalla confisca, siccome usò di Libone Ann. lib. 2. cap. 32. bona inter accusatores dividuntur; poichè Libone era morto reo giudicato da Cesare, e reo di maestà, quamvis nocenti, cit. lib. 2. cap. 31. Laddove di Silio dice saevitum tamen in bona. Ognun vede che quel saevitum mal si userebbe a denotare una pena, che, benchè atroce di sua natura, pur fosse la consueta sanzione di antica legge. In fatti narrando in seguito il dolce temperamento di Lepido, per liberare dalla confisca la metà de' beni di Sosia, di trarne solo la quarta parte pe'delatori, espressamente aggiunge secundum necessitudinem legis. Il tamen poi pone il colmo a tale dimostrazione, perchè mi pare che non potrebbe esattamente connettersi con il

discorso anteriore, se non rendesse tal senso, non valse a Silio il prevenir la condanna: bench' ei s'uccidesse quando già s'era mostrata vana l'accusa di maestà, pure s'infe▪ roci contra i beni, aggiudicandoli al Fisco.

Aggiungo in fine, che posta tale interpretazione basta qui il liberalitas Augusti a denotare l'articolo della legge Giulia majestatis; perchè non essendovi altra legge, la quale allora e nel Senato e nel foro più si trattasse, dovea ben essere in ogni articolo studiata, appresa, e conosciuta dal popolo; talchè bastasse a distinguerla qualunque voce usuale, che ne accennasse lo spirito. Qui poi può dirsi voce caratteristica, perchè di quelle leggi e di que' Principi era vera liberalità quanto non ti rapivano; cosicchè io penso che fosse ironicamente adoperata da Tacito, perchè la chiama Ann. lib. 6. cap. 29. pretium festinandi.

Neppur di questa interpretazione vuol che mi sappian grado il P. Petrucci, se pur merita che me ne s'abbia. Ma non sapendo come dissimularla, che fa ? l'espone in guisa che quei lettori, e sono i più, che non sogliono per sè medesimi svolgere i commentarj, di molti estimino un' opinione, ch'è mia, e tutta mia solamente. Non sarà grave ch'io qui trascriva la sua medesima Nota, ch'è la vigesimaquinta del Libro Quarto. Contrastan gl'Interpreti, e' dice, nello stabilire qual fosse questa liberalità di Augusto. O debba intendersi di beni lasciati a Silio da Augusto per testamento, o altrimenti ; ovvero della clemenza d'Augusto, il quale non comportava che si confiscassero i beni de' condannati, se questi avevano figli, dalla qual clemenza Tiberio si allontanò in questa condanna di Silio, che sono i due pareri più abbracciati, ho procurato di adattare all' uno e all' altro la mia versione, senza entrare secondo il mio proposito, in critiche discussioni. Letta tal Nota, io prego i miei lettori a ricorrere le opinioni, che ho tutte qui ricordate de' tanti Interpreti, e a riscontrarle se loro aggrada, anche originalmente. Esse mostreran loro, più che dal P. Petrucci non si divisa, in qual contrasto li ponga l'intelligenza tentata indarno d'un tal vocabolo; ma loro pur mostreranno, fra tant' ire e contese sono pur essi in un punto egregiamente concordi, lo che da lui non s'avvisa, a non sospettar nemmeno che il liberalitas potesse intendersi dell'eredità rilasciata a' successori de' rei morti in accusa di mae

che

stà, quando purgasser di tal querela gli estinti. Io sono il primo, che ciò sostenni; e siccome de' due traduttori ed interpreti, che mi han seguito, uno, cioè il cavaliere Sanseverino, passa mutolo su questo luogo, l'altro, ed è il P. Petrucci, protestasi, che per non entrare in critiche discussioni volle adattare la sua versione ad ogni significato per non decidersi a niuno, così pur sono quel solo, che ciò sostenga. Come può dunque asserire il P. Petrucci, che il mio parere è uno de' più abbracciati? Forse perchè nell' atto ch' ei lo voleva mostrare indegno di preferenza, sentiva stringersi dalla necessità di abbracciarlo? Non posso pretermettere intanto ch'egli falsò l'articolo della legge di maestà mal esprimendo il mio sentimento col dir che Augusto non comportava si confiscassero i beni de' condannati, se questi avevan figliuoli; perchè la legge niuna pietà sentiva de' figli de' condannati per maestà, ma di quelli, che querelati di maestà perissero prima d'averne giudizio, vietava al fisco di assumere l'eredità, se fosser poi sostenuti e dichiarati innocenti; nè l'asserirli in giudizio dopo la morte innocenti erasi un privilegio de' figli, ma dalla legge si consentiva a qualunque fosse giammai per succedere. Che se niuno può contrastargli di aver usato un vocabolo, che s'acconci ad ogn' interpretazione, cioè che serbi perfettamente l'oscurità del Testo, che niuna parola qualunque siasi potrebbe mai disgombrare; io non gli posso consentir certo quel suo proposito, benchè spesso ancor ricordato, di non entrare in critiche discussioni, perchè dovrò mio malgrado mostrarlo mettersi in esse e sovente e volonteroso tutte le volte ch'egli si crede ben preparato a combattermi.

Nota 8. cap. 20.

DELLA LEGGE) Malamente giudica il Lipsio che qui si accen ni la legge di maestà; perchè il cuncta quaestione majestatis exercita dee riferirsi a Silio, e non a Sosia, la quale fu solamente accusata come partecipe, e istigatrice forse delle rapacità da suo marito commesse nella provincia, secondo che riflette ottimamente l'Ernesti. Sosia non si uccise; fu dunque convinta rea di quel delitto medesimo, che provavasi in Silio, cioè di estorsioni. Sappiamo altronde, e lo accorda lo stesso Lipsio, che la quarta era un premio fissato agli accusatori, non solamente dalla legge Giulia majestatis, ma dalla legge ancora

de repetundis; talchè protesta di nulla avere ad opporre che a questa legge si riferisca.

Nota 9. cap. 29.

NE LO RIMERITO) Tra i significati di refero sta rependere, ricompensare. Mi pare dunque, che tale significato non solamente renda più vigoroso il concetto, ma che sia anzi il proprio a denotare in tal giudizio ancora il costante tenor di Tiberio di nulla mai perdonare chi l'offendesse, ma di serbarne la punizione a miglior incontro, come notò dianzi al cap. 20. di questo libro lo Storico relativamente a Pisone, che aveva osato molto prima di vilipendere nella persona di Augusta la maestà del Principe: quae in praesens Tiberius civiliter habuit; sed in animo revolvente iras, etiamsi impetus offensionis languerat, memoria valebat ; e più positivamente al cap. 71. chiamandolo lentum in meditando, ubi prorupisset, tristibus dictis atrocia facta conjungere. È il proprio inoltre a qualificar la sorte, che molti incontrano col farsi ministri e complici di fellonie, di rendersi cioè odiosi a quell' uomo stesso, a' cui delitti si prestano, e odiosi a segno da esserne esterminati; e fu pur questa proprietà di Tiberio, qui scelerum ministros, ut perverti ab aliis nolebat, ita plerumque satiatus, et oblatis in eamdem operam recentibus, veteres et praegraves adflixit, come narrasi in questo libro cap. 71.

Nota 10. cap. 32.

RIVOLUZIONI) Il Lipsio corresse il rerum motus della volgar lezione in rerum monitus, seguito dal Freinsemio e dall' Ernesti, e spezialmente dal Davanzati, il qual così lo tradusse, ma ci sono alla vita grandissimi insegnamenti. Chi sa per altro qual vera, e quanto grande sentenza ed utile chiudasi in quel pentametro di Properzio

Maxima de nihilo nascitur historia, converrà pure che la lezion volgare non bisognava di correzione; perchè le massime mutazioni, lo che significa talvolta motus, non sol di governi e d'usi parziali, ma di costumi, di religioni, e di Stati nell' universo, in gran parte nacquer da così tenui principj, che si ravvisano appena, compiuta ancor

la catastrofe, da' più sottili investigatori. La qual verità è dî grandissimo insegnamento alla vita di chi governa gl' Imperj; ma d'istruzione assai tenue per il privato vivere, e non più quasi che di argomento di erudizione a' servi di una despotica signoria, non sine usu,

Nota 11. cap. 48.

NOTTE) Quanto splendida e chiara, altrettanto è più breve la maniera da me usata ad esprimere la latina. Lo avverto ad onor della nostra lingua avendola tratta dal celebre volgarizzamento di Seneca dell' aureo secolo, ove nella Pistola 66, aeque fortis esse potest, qui pro vallo securus excubuit, volgesi esser forte colui, che guarda securamente la notte nell'oste.

Nota 12. cap. 49.

CONSIGLI) Il de la Bletterie e il Brotier scompigliano questo luogo senza la minima necessità, riferendo l'ignobiles a denotare il volgo, la moltitudine; e il Dureau de la Malle non dubita di sospettare alterato il testo in maniera, che a renderlo intelligibile convenga snaturare alquanto la frase latina, qualunque senso voglia adottarsi. Confesso di non vedere il bisogno di tale snaturamento. Narra Tacito che tra' Barbari scoppiò la discordia per colmo d'ogni calamità, dissentendo i capi sopra i partiti da prendersi in tanta stretta. Nota i diversi pareri, e riflette come, benchè diversi, eran pur tutti di tal carattere da non tacciarsene alcuno di codardia Separando il neque ignobiles con due punti dall' antecedente, cosicchè tengasi in relazione con esso, ma in forma di epifonema, mi par che sorgane un senso netto con proprietà latinissima. E ch'io mi sia bene apposto me ne assicura il P. Petrucci adottando con la punteggiatura la mia interpetrazione, benchè, per non gravar di più note la sua versione, tralasci di ricordarlo.

Nota 13. cap. 52.

DEL PRINCIPE) Il commota domo non credo che debba prendersi per essere in trambusto, come traducesi dal Da

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